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Il divieto fondante dei parchi: la caccia

31 Ottobre 2024

 

I motivi di un divieto
Un Ente Parco, come quello che gestisce le Aree Protette delle Alpi Cozie, adotta regolamenti, normative e ordinanze che possono limitare le attività umane sia ricreative, sia residenziali e produttive. Le istituzioni chiamate a tutelare ecosistemi di particolare pregio, infatti, hanno il compito di sperimentare sempre nuove forme di coesistenza degli esseri umani in un ambiente naturale ricco di biodiversità. L’obiettivo di questa rubrica è spiegare i motivi dei divieti, aiutando il pubblico a comprendere certe restrizioni volte a conservare un territorio in salute e fruibile nel rispetto delle esigenze di tutte le specie.

 

Nei parchi non si caccia

In Piemonte la Legge Regionale n.19/2009 all’articolo 8 afferma che «Nelle aree protette istituite e classificate come parco naturale e riserva naturale si applicano i seguenti divieti: a) esercizio di attività venatoria; b) introduzione ed utilizzo da parte di privati di armi, esplosivi e qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, se non autorizzati nominativamente». 

Cacciare per sopravvivere o cacciare per gioco? 

Per oltre un milione di anni l’essere umano e i suoi antenati ominidi sono stati cacciatori raccoglitori. Significa che ricorrevano alla caccia per nutrirsi anche se gli studi hanno dimostrato che il consumo di selvaggina aveva la funzione di integrare con grassi e proteine una dieta prevalentemente costituita da vegetali e frutta spontanei che venivano raccolti in natura. Poi, 12.500 anni, fa prende avvio la rivoluzione neolitica quando in varie parti del mondo l’homo sapiens inizia a prodursi il proprio cibo attraverso l’agricoltura e l’allevamento. 
Un punto di svolta importantissimo che consente ai nostri antenati di arricchire notevolmente l’alimentazione e quindi migliorare il tasso di sopravvivenza con netto aumento della popolazione mondiale. In generale, coltivare il nutrimento è un’attività assai più economica rispetto a procacciarselo e consente a uomini e donne di vivere in maniera stanziale e risparmiare tempo ed energie da dedicare ad altre attività come l’artigianato, la cultura e le arti. Eppure l’esercizio della caccia è sopravvissuto fino ai giorni nostri anche in quelle aree della terra dove si produce cibo in sovrabbondanza con tecniche industriali. Forse perché, noi esseri umani, siamo ai vertici della piramide alimentare e per oltre il 99% della nostra storia evolutiva siamo stati predatori di altre specie? 
Oggi quindi possiamo affermare che la caccia rappresenta prevalentemente un’attività ricreativa e commerciale, sebbene dotata anche di qualche valenza ecologica nella difesa di certi ambienti e a protezione di attività umane come l’agricoltura dall’eccessiva proliferazione delle specie selvatiche. Sono questi i principi cardine contenuti nella legge 157/1992 intitolata Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio che all’articolo 1 definisce la fauna selvatica come patrimonio indisponibile dello stato quindi interpreta la caccia come una concessione regolata da apposite leggi che lo stato riconosce ai suoi cittadini. 

I danni della caccia e la nascita dei parchi 

Nell’ordinamento italiano l’attività venatoria praticata in maniera responsabile e rispettosa delle norme è una consuetudine legittima, ma non bisogna dimenticare che in passato si è svolta in maniera indiscriminata portando a ingenti danni ecologici, tra cui l’estinzione di numerose specie. Il primo Parco Nazionale istituito in Italia fu il Gran Paradiso, creato nel 1922 espressamente per proteggere lo stambecco che rischiava di scomparire proprio a causa della caccia. Più vicino a noi, nei territori delle Aree Protette Alpi Cozie, gli esseri umani hanno progressivamente eliminato i principali predatori tra cui orsi, linci, lupi e numerosi rapaci oltre agli ungulati. Solo i camosci sono sopravvissuti al periodo di maggiore pressione venatoria durante la II Guerra Mondiale quando la caccia rappresentava per le popolazioni locali un’economica fonte di approvvigionamento di cibo. I cervi, caprioli e cinghiali che possiamo osservare nei boschi e tra le montagne sono stati reintrodotti a partire dagli anni ’60 per scopo venatorio, mentre gli stambecchi tra la fine degli anni ’80 e ’90 per motivi scientifici. 
Il divieto di caccia nei parchi nazionali, regionali e nelle riserve naturali rappresenta quindi un principio fondante per la tutela, la conservazione e il ripristino del patrimonio ecologico. Senza dimenticare le considerazioni etiche e morali: nei territori dove si lavora per garantire la sopravvivenza di specie animali e vegetali, il ricorso a metodi cruenti deve essere un’estrema conseguenza. 

Gestione faunistica e abbattimenti selettivi

Proviamo ad affrontare questa tematica con una storia. 
Dopo l’istituzione del Parco Naturale del Gran Bosco di Salbertrand, il numero di cervi precedentemente reintrodotti è cresciuto eccessivamente compromettendo il naturale rinnovo della flora boschiva e arbustiva. È stato quindi necessario procedere con gli abbattimenti selettivi per contenere la popolazione di ungulati finché a metà degli anni ’90 è tornato spontaneamente il lupo, anch’esso estintosi a causa dell’attività venatoria, che ha proseguito in maniera naturale il compito preso in carico dall’Ente Parco. Un bellissimo esempio di come la creazione del Parco e il divieto di caccia abbia consentito di ricreare l’equilibrio ecologico che regnava su queste montagne prima che le attività umane portassero alla scomparsa di lupi e cervi. 
Uno dei compiti principali di un Ente Parco può prevedere la necessità di ricorrere ad abbattimenti selettivi per contenere specie la cui popolazione eccessiva compromette gli equilibri ecologici di un habitat. Questo tipo di gestione faunistica si differenzia dalla caccia vera e propria perché si può effettuare soltanto in casi specifici: per comprovate motivazioni scientifiche, per conservare una biodiversità più ricca, per contenere danni alle attività agricole, al patrimonio forestale e ai corsi d’acqua, per limitare l’insorgere di patologie e la diffusione di specie alloctone. Richiede inoltre uno specifico parere di Ispra e non deve avere una finalità ricreativa, bensì avviene sotto stretta sorveglianza e responsabilità dell’Ente Gestore. Per fare un altro esempio concreto, attualmente nei Parchi delle Alpi Cozie è in corso un programma di abbattimenti per il contenimento della popolazione di cinghiale e della diffusione della peste suina africana sotto coordinamento della Regione Piemonte. 

Cacciare nei siti della Rete Natura 2000

Nel 2014 la Regione Piemonte ha deliberato le «Misure di conservazione per la tutela della Rete Natura 2000 del Piemonte» con l’obiettivo di individuare obblighi, divieti e buone pratiche per mantenere in uno stato di conservazione favorevole gli ecosistemi e le specie animali e vegetali di interesse comunitario individuati nelle direttive Habitat e Uccelli dell’Unione Europea. In esse sono previste alcune limitazioni all’attività venatoria nell’ottica della difesa della fauna definita prioritaria. 
In tutti i siti, cioè nelle Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e nelle Zone a Protezione Speciale (ZPS), è vietata la caccia alla lepre variabile e alla pernice bianca, fatte salve le aree dove sia monitorato e verificato un favorevole stato di conservazione, oltre alle battute e braccate con un numero di cani superiore a 4. Per evitare fenomeni di saturnismo che colpiscono soprattutto le specie al vertice della piramide alimentare e i necrofagi, inoltre, è vietato il munizionamento al piombo in tutti gli ambienti umidi, lacustri e fluviali. Nelle ZPS individuate in ottemperanza alla direttiva Uccelli sono in vigore alcune ulteriori limitazioni per la tutela dell’avifauna tra cui, anche nella caccia agli ungulati è vietato l’utilizzo di proiettili contenenti piombo o, in alternativa, è obbligatorio rendere inaccessibili i visceri dei capi abbattuti a protezione soprattutto di avvoltoi e gipeti da fenomeni di morte per avvelenamento. 

Una caccia senza preda?

Si dice che il vero cacciatore ama la caccia più della preda. D’altronde l’uccisione di un animale è solo l’ultimo atto di un’attività molto complessa e coinvolgente, che presuppone un approfondito studio della specie, dei suoi comportamenti e delle sue abitudini, maturata grazie a lunghi appostamenti in natura per osservare il selvatico, senza disturbarlo, nella sua interazione con l’ambiente circostante. 
Sono tutte attività che si possono fare anche in un parco ad esclusione del gesto violento. Anzi, soprattutto in un parco dove gli animali si sentono maggiormente al sicuro e si possono osservare con più facilità. Molti esseri umani si sentono naturalmente attratti e incuriositi dalla fauna selvatica: non sappiamo se sia un istinto che deriva dalla nostra lunga storia di cacciatori raccoglitori oppure un interesse culturale e scientifico o ancora una curiosità di carattere ludico. I parchi sono i luoghi dove si possono soddisfare questi bisogni nel rispetto di tutti gli esseri viventi che vi abitano.